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Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
 
 
"La religiosità e la pietà popolare, nei riti della Settimana Santa, a Sorrento e in Penisola Sorrentina" di Raffaele Lauro Sorrento, 15 aprile 2011 Nel concludere questo intenso ed emozionante incontro sul bel libro di don Francesco Saverio Casa e di Giovanni Petagna, desidero, da subito, esprimere un sentimento di gratitudine, con la mente e con il cuore, al Priore, Antonino Persico, a tutti i Confratelli e, in particolare, agli amici Diodato Morvillo e Pasquale Ferraiuolo, per aver consentito di organizzare, in questo tempio di fede e di bellezza, una presentazione, che per il tema trattato, il Canto del Miserere, non poteva avere altro luogo che questo, che è la sintesi più alta del patrimonio religioso, storico, civile ed anche estetico, della nostra amata città di Sorrento. Aggiungerò poche riflessioni sul rapporto tra religiosità e pietà popolare, nei riti della Settimana Santa, a Sorrento e nella Penisola Sorrentina, in considerazione dei preziosi, interessanti e colti interventi degli illustri relatori che mi hanno preceduto: il coordinatore, Diodato Morvillo; il Priore, Antonino Persico; il Sindaco, Giuseppe Cuomo; il coautore, don Francesco Saverio Casa; il Direttore Diocesano dell'Ufficio Confraternite, don Antonino Minieri e il collega professor Vincenzo Russo, che ci ha donato un'altra prova della sua straordinaria preparazione scientifica e della sua elevata sensibilità culturale verso la storia della nostra terra. La religiosità popolare, come si invera nei riti della Settimana Santa a Sorrento e in Penisola Sorrentina, rappresenta una lente di ingrandimento che permette di meglio vedere e misurare alcune dimensioni della fede cristiana. La fede cristiana è un fatto relazionale: il donarsi di Dio a noi che suscita una risposta libera. Entrambi i poli sono essenziali, quello di Dio che chiama, e quello dell'uomo chiamato che risponde. I teologi preferiscono dare evidenza all’iniziativa di Dio. È il polo primario e il più facile da definire. Ma può anche risultare il più astratto e generico. Esso lascia in ombra l’articolarsi della fede nei soggetti, in ciascuna persona, nei luoghi e nei riti, che si stratificano nelle diverse culture. La religiosità popolare, invece, sottolinea maggiormente le esigenze dell’implicazione soggettiva, le dimensioni personali della fede e ci mette in gioco in prima persona, con le nostre scelte, con le nostre cadute e con le nostre attese dell'assoluto. Nel suo bisogno di concretezza, la religiosità popolare dà molto risalto alla tangibilità degli effetti di Dio nella storia. Essa vuole “vedere” Dio, sperimentarne l’agire salvifico. La teologia, da parte sua, approfondisce il riferimento agli eventi generatori della fede, quelli conclusi, una volta per tutte, nella Rivelazione di Dio in Cristo Gesù. La religiosità popolare, quindi, vive una fede che si trova a suo agio con la convinzione che Dio sia tuttora, e sempre, all’opera nella storia, non solo in quella “grande”, ma nella “piccola storia” di ogni vita, di ogni esistenza umana e, nel nostro caso, di coloro che partecipano alla processione del Cristo Morto, come incappucciati, di quelli che, nel coro, cantano il Miserere e di quanti, non tutti purtroppo, assistono, come spettatori, allo sfilare della processione tra le strade di Sorrento. La religiosità popolare rivendica un’esistenza tutta intera coinvolta nella fede e il bisogno che essa interessi tutta la corporeità, l’affettività e la stessa emozione, come avviene nella sera del Venerdì Santo, in quella unità di sentimento religioso, di devozione e di radicamento dei condivisi valori della comunità, che esprime l'anima vera, autentica e più nobile della nostra città. Questa definizione della religiosità popolare nell’orizzonte della teologia fondamentale, ci invita a non dimenticare, nel discernimento sulle forme di fede cristiana, che ogni atto autenticamente religioso o di fede, per quanto imperfetto, tende ad un “agere” che è anche un “pati”, un agire, ma per ricevere. Il sospetto nei riguardi della religiosità popolare, come forma di agire utilitaristico se non magico (che oscura la trascendenza di Dio e ne fa una proiezione dei propri bisogni) dovrebbe essere verificato a partire dalla considerazione che l’agire religioso popolare ha, spesso, pur nei suoi limiti e nelle sue contaminazioni, il significato di un fare per essere “agiti” da Dio. Ecco perché un aspetto essenziale per la valutazione della religiosità popolare trova il suo baricentro nella Pasqua di morte e di risurrezione del Signore. Ed il Venerdì Santo costituisce lo snodo di questa sofferenza, di questo patire, di questo essere insieme, perché il popolo si riconosce nel Gesù della passione, nel Gesù sofferente, nel Gesù morto in croce, nel Gesù deposto, immagine e riscatto della nostra unica possibilità di salvezza. Per tale ragione la passione di Gesù ha sviluppato la maggior parte delle devozioni proprie della religiosità popolare: le vesti degli incappucciati, i segni dei martiri, le croci e, infine, le statue del Cristo Morto e dell'Addolorata, diventano strumento di intense emozioni. Non a caso la sofferenza del Cristo viene associata sempre alla sofferenza della Madre, che vive la tragicità della morte del Figlio. Così avviene che il popolo, nel nostro caso il popolo sorrentino, si identifica, da centinaia di anni, col dolore del Cristo, vivendo quello della Madre, che in fondo è il dolore di ogni donna. È alquanto semplice, naturalmente, riconoscere i limiti di questa “cristologia popolare”: senza la risurrezione, la fede perde il suo dinamismo e porta ad un atteggiamento passivo della vita. In una logica di imitazione passiva, la fede non manifesta la sua forza ultima di liberazione. Nello stesso tempo, occorre ricordare che Cristo Risorto è sempre il Crocifisso e porta i segni della sua passione nelle mani e nel costato. Per tale ragione, Paolo VI nella enciclica "Evangelii Nuntiandi" preferì, a quella di religiosità popolare, l'espressione di pietà popolare, perché in un rapporto più diretto con la liturgia. La liturgia esprime e mantiene ciò che è centrale nella vita cristiana. Evidenzia, celebrandolo, il fondamento sorgivo della fede: il mistero pasquale. La pietà popolare, quindi, cerca di esprimere la fede all’interno delle varie circostanze concrete della vita e attraverso i sentimenti che esse suscitano. Il mistero di Cristo che la liturgia celebra, infatti, eccede ogni espressione. Esso irradia di luce tutti i frammenti della vita umana, nelle esperienze personali e comunitarie, come quella della processione del Cristo Morto. La pietà popolare non ha un contenuto diverso dalla liturgia: è sempre il mistero pasquale, ma cercato nei suoi effetti salvifici dentro l’orizzonte quotidiano. La pietà popolare invita la liturgia a recuperare tutta la dimensione affettiva del celebrare, vale a dire di far sperimentare il sentimento di essere “affetti” da Dio, raggiunti perennemente dalla grazia. La liturgia, di contro, non celebra le emozioni, ma il mistero pasquale che ci “emoziona” e in questo modo essa educa la pietà popolare a non ridursi a un effimero spettacolo, magari per i turisti, privo di contenuto partecipe, come ha sottolineato don Antonino Minieri, nella prefazione. Il senso di identificazione nelle sofferenze della passione di Cristo e il continuo bisogno di espiare i peccati, per i quali l'Agnello di Dio si è immolato sulla croce, salvando così l'umanità intera, trovano, nella dimensione della pietà popolare, la loro massima espressione nel Miserere. Il Miserere è il canto nel quale la pietà popolare viene esaltata nel suo massimo grado. Il Miserere è una delle preghiere più recitate e famose del Cristianesimo. Il suo testo è quello di un salmo (Salmo 51), stilisticamente inferiore ad altri più belli del Libro dei Salmi, che, secondo la tradizione, fu scritto dal re Davide, come pentimento per una colpa di natura carnale, commessa con Betsabea, la moglie di un ufficiale dell’esercito. Il Miserere esprime, quindi, il senso di colpa e la richiesta di perdono. Quello che colpisce immediatamente nella trama degli avvenimenti che precedono e motivano questa composizione penitenziale, è che la trasgressione sembra essere la via maestra per raggiungere se stessi e Dio. L’unica vera colpa sarebbe non rendersene conto: ecco la funzione coscienziale del profeta Natan, che illumina la mente di Davide. Dopo che il profeta ha aperto gli occhi a Davide, la richiesta di perdono del re appare come la volontà di legittimare e di integrare il nuovo che ha acquisito, come un appello alla misericordia di Dio, per sancire l’ammissibilità dei propri desideri, anche quelli più inopportuni. Davide prega di essere lavato dalle scorie del propellente che è servito a compiere l’indegno gesto, ma non lo rinnega, poiché talvolta si deve essere indegni, per riuscire a vivere pienamente. Dal proseguimento dell’amore di Davide per Betsabea nascerà il futuro re d’Israele, Salomone, colui che diventerà l’emblema del retto agire e del giusto decidere. La preghiera di Davide, come hanno dimostrato sagacemente gli autori di questo prezioso volume, Francesco Saverio e Giovanni, coincide con la nostra stessa richiesta, dolorosamente colpevole, di essere accettati con comprensione per ciò che siamo e per quello che siamo costretti a fare per non tradire noi stessi. Il pentimento è la consapevolezza della inevitabile ambivalenza dell'agire umano, ma è pur sempre, secondo un’espressione di Nietzsche, un “dire sì alla vita”. Il compito della fede, in conclusione, è quello di assumere il dolore affettivo dei sentimenti di colpevolezza, messi in movimento dalla contrizione, e di trasformare questi in coscienza della responsabilità davanti a Dio. Per ogni cristiano Dio è non soltanto creatore, ma è anche colui che ci ha redenti in Cristo, con quell’amore che Cristo stesso ha modellato su Dio Padre. La redenzione compiuta da Cristo nella sua Pasqua e liberamente accolta dal credente nel sacramento del mistero pasquale e vissuta come fedeltà di alleanza contratta nel sacramento del battesimo, determina, per l’uomo, perdono e liberazione dal peccato. Ma anche dono della vita di Dio attraverso lo Spirito, che comporta l’essere figli nel Figlio in comunione con il Padre, per sempre. Il peccato non offende né denigra Dio, bensì intacca l’essere dell’uomo, poiché, essendo infedeltà a quell’alleanza fondata in Cristo e già accolta nella fede, costituisce un disprezzo dell’amore di Dio e del dono di se stesso. Gli eventi, in quanto azioni storico-salvifiche, compiute da Cristo, sono tutti incentrati nel compimento della Pasqua: passione, morte, risurrezione, ascensione al Padre. Agendo simbolicamente, il rito liturgico ne fa il memoriale in quanto momento significativo, rivelato dalla Parola, e in quanto momento attuativo, come presenza incorporata nel simbolo della realtà rivelata significativamente. In tal modo si attua la liturgia sacramentale che postula l’azione della Chiesa. In essa, l’azione credente del soggetto interpellato e agente simbolicamente nel rito, la cui partecipazione è condivisione, diventa necessaria all’attuazione piena del sacramento. Rinnovo i miei ringraziamenti al Priore per questa ospitalità, nel luogo più caro alla fede cristiana dei sorrentini, e a tutti voi per la vostra attenta partecipazione. Questi riti, i nostri riti della Settimana Santa, costituiscono le nostre radici, il nostro DNA spirituale, che dobbiamo difendere, custodire e consapevolmente praticare, se, oltre alla salvezza oltremondana, aspiriamo a salvaguardare, per le future generazioni, la nostra identità religiosa e civile, dalle tempeste che si addensano sul nostro orizzonte. Pregiudicare queste radici significherebbe pregiudicare l'identità stessa del popolo sorrentino! L'ascolto del canto del Miserere, nella versione indimenticabile ed insuperata del Maestro Ambrosini, rappresenta la degna conclusione di questo incontro, così soffuso di grazia e così pregno di consapevolezza comune sulla nostra indeclinabile ed insostituibile dimensione spirituale, come singoli e come comunità.
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"Ora che le carte dell'accusa sono state depositate e sappiamo, per certo, che il governatore della Sicilia risulta indagato, insieme con il fratello, per un reato gravissimo di matrice mafiosa, la Commissione Antimafia deve affrontare, senza indugi, il caso Lombardo, chiedendo ed esaminando gli atti con urgenza, nonostante i tanti amici della sinistra e non, che lo sostengono e, contro ogni pudore, lo difendono, per convenienze politiche locali. Non e' più tollerabile che i professionisti dell'antimafia usino due pesi e due misure." Lo dichiarato questa sera il sen. Raffaele Lauro (PdL), membro della Commissione Antimafia. ----------------- Agenzie di stampa e Il Mattino MAFIA: LAURO (PDL), IN ANTIMAFIA SUBITO CASO LOMBARDO = ATTI VANNO ESAMINATI CON URGENZA Roma, 9 apr. (Adnkronos) - ''Ora che le carte dell'accusa sono state depositate e sappiamo, per certo, che il governatore della Sicilia risulta indagato, insieme con il fratello, per un reato gravissimo di matrice mafiosa, la commissione antimafia deve affrontare, senza indugi, il caso Lombardo, chiedendo ed esaminando gli atti con urgenza, nonostante i tanti amici della sinistra e non, che lo sostengono e, contro ogni pudore, lo difendono, per convenienze politiche locali''. Lo ha dichiarato all'Adnkronos questa sera Raffaele Lauro, senatore PdL, membro della commissione antimafia. ''Non e' piu' tollerabile -ha sottolineato- che i professionisti dell'antimafia usino due pesi e due misure." (Rre/Ct/Adnkronos) 09-APR-11 20:39 NNNN MAFIA: LAURO(PDL), COMMISSIONE ANTIMAFIA SI OCCUPI CASO LOMBARDO = (AGI) - Roma, 9 apr. - "Ora che le carte dell'accusa sono state depositate e sappiamo, per certo, che il governatore della Sicilia risulta indagato, insieme con il fratello, per un reato gravissimo di matrice mafiosa, la Commissione Antimafia deve affrontare, senza indugi, il caso Lombardo, chiedendo ed esaminando gli atti con urgenza, nonostante i tanti amici della sinistra e non, che lo sostengono e, contro ogni pudore, lo difendono, per convenienze politiche locali". Lo ha dichiarato questa sera il Raffaele Lauro (PdL), membro della Commissione Antimafia. "Non e' piu' tollerabile - ha aggiunto - che i professionisti dell'antimafia usino due pesi e due misure". (AGI) Red/Ila 092110 APR 11 NNNN INCHIESTA IBLIS: LAURO"COMMISSIONE ANTIMAFIA SI OCCUPI DI CASO LOMBARDO" ROMA (ITALPRESS) - "Ora che le carte dell'accusa sono state depositate e sappiamo, per certo, che il governatore della Sicilia risulta indagato, insieme con il fratello, per un reato gravissimo di matrice mafiosa, la Commissione Antimafia deve affrontare, senza indugi, il caso Lombardo, chiedendo ed esaminando gli atti con urgenza, nonostante i tanti amici della sinistra e non, che lo sostengono e, contro ogni pudore, lo difendono, per convenienze politiche locali". Lo sostiene in una nota il senatore del Pdl Raffaele Lauro, membro della Commissione Antimafia. "Non e' piu' tollerabile - conclude Lauro - che i professionisti dell'antimafia usino due pesi e due misure". (ITALPRESS). gas/com 09-Apr-11 21:56 NNNN
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Unità d’Italia e Terronismo. Lauro (PdL): Tra l’orgoglio nordista e l’orgoglio sudista deve prevalere, specie presso le giovani generazioni, l’orgoglio italiano. Nell’ambito della ricerca storica hanno legittima cittadinanza, sul piano culturale, anche i revisionismi, come quello neoborbonico, ma disperdere il patrimonio ideale del nostro Risorgimento nazionale rappresenta un suicidio, in grado di pregiudicare il futuro stesso del nostro Paese. “Tra l’orgoglio nordista e l’orgoglio sudista deve prevalere l’orgoglio italiano. Bisogna abbattere gli steccati creati dai pregiudizi del terronismo. Nell’ambito della ricerca storica possono avere legittima cittadinanza, sul piano culturale, anche i revisionismi, come quello neoborbonico, ma disperdere il patrimonio ideale del nostro Risorgimento nazionale rappresenta un suicidio, in grado di pregiudicare il futuro stesso del nostro Paese. Non abbiamo alcuna nostalgia di Casa Savoia, di Garibaldi o di Francesco II di Borbone, ma dobbiamo guardare avanti, nella consapevolezza che il Nord e il Sud d’Italia sono legati, oggi più di ieri, da un unico destino e da identica prospettiva storica.” Con queste considerazioni, il sen. Raffaele Lauro (PdL) ha annunziato, stamane, al Senato, la sua partecipazione, nell’ambito del 150° anniversario dell’Unità d’Italia, al convegno nazionale di riflessione storico-politica, che si terrà a Massa Lubrense, sabato 16 aprile 2011, alle ore 11.00, presso “Villa Murat – La dimora su Capri”, nel centro storico dell’Annunziata di Massa Lubrense, sul tema: "Celebrare o festeggiare i 150 anni dell'Italia unita?", organizzato dall’Amministrazione Comunale di Massa Lubrense. L’incontro sarà coordinato dal giornalista Angelo Ciaravolo. Dopo i saluti del Sindaco, Leone Gargiulo, dell’Assessore, Donato Iaccarino, e del manager di Villa Murat, Raffaele Esposito, interverranno, nell’ordine: Liliana De Curtis, attrice e scrittrice; Lorenzo Del Boca, giornalista e scrittore e Nicola Todisco, delegato della Real Casa Savoia per la Campania. Concluderà il sen. professor Raffaele Lauro. Al termine della manifestazione, nei giardini di Villa Murat, seguirà un brindisi di auguri per i 150 anni dell'Unità d'Italia.
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SORRENTO. SETTIMANA SANTA. In preparazione della Settimana Santa in Penisola Sorrentina, il senatore Raffaele Lauro presenta il libro “Miserere – Il canto dei penitenti redenti in Cristo” di don Francesco Saverio Casa e di Giovanni Petagna, edito dalla Stamperia Grafica Petagna. Venerdi 15 aprile, ore 16.00, presso la Chiesa dei Servi di Maria, in Via Sersale. Venerdi 15 aprile 2011, alle ore 16.00, a Sorrento, nella Chiesa dei Servi di Maria, in via Sersale, in preparazione della Settimana Santa in Penisola Sorrentina, sarà presentato il libro di don Francesco Saverio Casa e di Giovanni Petagna, dal titolo "Miserere - Il canto dei penitenti redenti in Cristo", edito dalla Stamperia Grafica Petagna. Coordinerà i lavori il dott. Diodato Morvillo, confratello dell’Arciconfraternita della Morte. Porteranno i saluti il Priore del Sodalizio, ing. Antonino Persico, ed il Sindaco di Sorrento, avv. Giuseppe Cuomo. Interverranno don Francesco Saverio Casa ed il confratello professor Vincenzo Russo. Concluderà il senatore Raffaele Lauro. Questo libro, in una elegante veste tipografica, corredata da una preziosa documentazione fotografica, riguardante le processioni dell'Addolorata e del Cristo Morto, organizzate dalle Arciconfraternite della Penisola Sorrentina, non è un semplice ritorno al passato, ma, come scrive nella prefazione il Direttore dell'Ufficio Confraternite della Diocesi, don Antonino Minieri, può diventare "un'apertura al futuro, che permetta alle nostre care confraternite di essere ancora presenze significative nella chiesa locale e, più in generale, nella società. Le tradizioni non vanno perse, ma non possono neppure essere portate avanti senza un reale coinvolgimento di chi vi partecipa. L'opera di ricerca degli autori aiuterà chi canta il Miserere e chi ascolta a fare entrare nel cuore le parole del canto e ad andare in processione con un nuovo entusiasmo, dando alle nostre tradizioni la possibilità di essere ancora strumento di evangelizzazione per il nostro tempo." LE PROCESSIONI DEL VENERDI SANTO E IL MISERERE Le due principali processioni del Venerdì Santo, che si svolgono a Sorrento, sono la processione dell'Addolorata o della "Visita ai sepolcri", organizzata dalla Venerabile Arciconfraternita di Santa Monica, detta de' Cinturati, e la processione del Cristo Morto, organizzata dalla Venerabile Arciconfraternita della Morte. La sfilata è aperta da una banda musicale che suona solenni marce funebri: le musiche composte da diversi autori (tra cui Chopin) accompagnano l'incedere lento degli incappucciati. Il cuore delle processioni è il coro del Miserere: un gruppo di circa 200 cantori intona in stile gregoriano i versi in latino del salmo 50. Questa tradizione nasce a Sorrento nel 1500, quando si iniziò a cantare il Miserere che, originariamente, a Roma veniva declamato. La processione del Cristo Morto si svolge la sera, sfilando tra le strade, ed i fedeli portano a spalla la statua del Cristo Morto e Deposto, seguita dalla Addolorata che piange il figlio morto. Anche in questa processione sono esaltati i "martìri" di Cristo, come i chiodi della croce, la lancia che lo trafisse al costato, i trenta denari che portarono Giuda a tradirLo. Questi simboli vengono esaltati, ancora una volta, dall'eliminazione dell'identità del partecipante, a volto coperto, che indossa un saio nero. La Venerabile Arciconfraternita della Morte, di San Catello e Congregazione dei Servi di Maria, tra le Confraternite ancora esistenti in Penisola Sorrentina, è la più antica. La sua origine infatti risale al 1380 con il nome di "Confraternita di San Catello", in seguito aggregata all' Arciconfraternita di Santa Maria dell'Orazione e Morte di Roma nel 1586; ed, in questa occasione, affiancò alla sua vecchia denominazione quella della "Morte". Da quella data comincia l'attività propria delle Compagnie della Morte ed Orazione che tanto si sono sviluppate in Penisola Sorrentina. La sua sede cambiò nel corso dei secoli: nel 1568 passò dall' attuale refettorio di S.M. delle Grazie, alla chiesa di S. Marco, in via Pietà e, nel 1865, proprio la Chiesa della Congregazione dei Servi di Maria (eretta nel 1717) divenne la sede della Confraternità di San Catello e della Morte e, tre anni dopo, nel 1868 furono incorporati i due pii sodalizi. Il saio che viene indossato dai confratelli varia, a seconda che essi rappresentino la Congregazione dei Servi di Maria, oppure l' Arciconfraternita della Morte. Nel primo caso esso è bianco, con cordone azzurro, nel secondo caso, invece, il saio è completamente nero, con cordone dello stesso colore. La Chiesa dei Servi di Maria, nota anche come Congregazionella, custodisce, tra l'altro, la magnifica statua lignea (secolo XVI) del Cristo Morto, che viene portata in processione il Venerdi Santo, oggetto di grandissima devozione da parte dei fedeli sorrentini e dei fedeli di tutto il mondo.
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"Le Sorelle d'Italia - Donne e Rosorgimento" Il ruolo delle donne nella costruzione dello Stato italiano è sempre stato considerato subordinato a quello maschile. Quelle donne, nonostante la poca o nulla visibilità pubblica, non solo ebbero un ruolo rilevante in quel processo, ma furono numerose, di diverse estrazioni sociali, e si dimostrarono volitive, determinate, con idee e progetti da costruire, impegnate direttamente nelle cospirazioni così come nelle lotte vere e proprie, anche se in genere con funzioni di organizzatrici - una delle poche che imbracciò il fucile fu Anita Garibaldi - passate poi, dopo l'unificazione, a ruoli di impegno sociale a beneficio delle donne e dell'infanzia, per il riscatto sociale delle classi disagiate, per l'organizzazione e la promozione dell'educazione. Queste donne, senza esagerare, furono centinaia. Anche se in gran parte dimenticate, non mancarono di essere coraggiose protagoniste nelle vicende che portarono all’unificazione d’Italia. Sebbene, quindi, fossero state figure di primo piano in quel processo storico, sono finite troppo presto nel dimenticatoio, tanto che, i loro nomi risultano oggi quasi scomparsi dai manuali di storia e, dunque, sconosciuti ai più. Nella stragrande maggioranza dei casi, il loro apporto non si limitò alla partecipazione più o meno attiva alla fase di unificazione dello Stato italiano, ma proseguì nel tempo, concretizzandosi in iniziative di alto valore civile e sociale, in grado di far crescere la nuova nazione e di avviare la costruzione di una società più libera e giusta. Il percorso che trasformò un’idea nella realtà dell’Italia unita, dalla Lombardia alla Sicilia, fu contrappuntato dal progressivo coinvolgimento delle masse, dunque l’apporto femminile fu determinante in tutte le sue tappe. Questo percorso però, si espresse in forme di partecipazione diverse, che lo resero meno “eroico” e perciò più oscuro ed anche più facilmente oscurabile da parte degli stessi contemporanei. Il medesimo destino, del resto, che è sempre toccato nei secoli, e in parte ancora oggi, al ruolo della componente femminile, peraltro numericamente maggioritaria, in tutte, o quasi, le società umane. La storia delle donne e dell'unità d'Italia, è stata una storia scritta con un inchiostro invisibile. Una trama fitta e sottile di presenze operose, generose, importanti, anche se taciute, come spesso accade all’agire femminile. Le donne furono presenti attivamente nel processo risorgimentale e vi contribuirono con atteggiamenti diversi, coraggiosi e innovativi, con scelte di libertà. Ma, se le donne ci furono e operarono, una perpetrata omertà della storia e degli storici, non ha reso loro giustizia. Giuseppe Mazzini nell’utopia universalistica della sua visione della realtà, manifestò posizioni aperte e rispettose circa l’importanza del ruolo della donna nella società, anche se ammise l’immaturità dei tempi affinché qualcosa potesse cambiare e la donna partecipare alla vita politica del Paese: “L’emancipazione della donna - scrisse Mazzini - sancirebbe una grande verità, di base a tutte le altre, l’unità del genere umano, e assocerebbe nella ricerca del vero e del progresso comune una somma di facoltà e di forze, isterilite da quella inferiorità che dimezza l’anima. Ma sperare di ottenerla alla Camera come è costituita, e sotto l’istituzione che regge l’Italia (la monarchia) è, a un dipresso, come se i primi cristiani avessero sperato di ottenere dal paganesimo l’inaugurazione del monoteismo e l’abolizione della schiavitù”. L’emancipazione della donna passò, senza dubbio, attraverso l’esperienza dell’associazionismo, che diffuse la pratica del dibattito e della democrazia. In questo senso, il "salotto" fu il primo strumento di apertura alla sua partecipazione e all’impegno intellettuale e civile. Fu in ambiti aristocratici e alto-borghesi, il cui livello culturale e l’internazionalità della formazione consentivano di produrre opinioni e confrontarle diffondendo così la passione per l’impegno sociale e civile, che ciò ebbe luogo. Nobildonne aprirono i loro salotti a letterati, patrioti e artisti, contribuendo, in modo sostanziale, alla creazione di un humus fertile alla diffusione dei fervori unitari e risorgimentali. Spesso simpatizzanti delle idee mazziniane, o vicine alla carboneria, come poi lo saranno alla teosofia, alla massoneria, esse hanno meno combattuto tra le barricate a colpi di moschetto, e più lavorato per la costruzione del paese civile. Nel salotto di via Bigli, ad esempio, la contessa Maffei riunì patrioti e artisti, uniti dall'anelito di indipendenza e dall’ardore libertario, quegli stessi che, nel 1859 avrebbero imbracciato le armi contro l’aquila Asburgica. Filantrope più che patriote, quindi, fondarono ospedali, organizzazioni per l’assistenza alle minorenni, aprirono asili e scuole per affrancare le donne da quella indigenza di cultura che si traduceva in mancanza di libertà. Le sottili trame del femminile legarono fatti e persone e spesso, i destini di queste donne, si incrociarono o si sfiorarono. Alcune di esse sono entrate nei libri di scuola, come Anita Garibaldi, compagne di eroi, o astute strateghe dell’intrigo e della politica, come la Contessa di Castiglione. Altre contribuirono, con i loro sforzi e le loro idee, ad un’azione collettiva e diffusa in cui è difficile far emergere singole individualità. Sono prime forme di associazionismo intorno a veri e propri progetti politici, sono comitati di filantrope dedite ad un progetto sociale, sono gruppi di giornaliste e intellettuali riunite intorno ad un periodico, comitati clandestini di patriote e congreghe dal carattere religioso. Spesso queste storie si coloravano di episodi avventurosi e rocamboleschi, e queste non sempre famose eroine si destreggiavano vestendo, il più delle volte, panni maschili, nascondendosi sotto travestimenti e false identità. Se gli uomini del Risorgimento, quindi, furono i protagonisti dell’Unità politica del Paese, le donne, nell’ombra, operarono alla creazione dell’unità sociale e culturale della nuova e giovane Italia. Nel fare questo, avviarono, contemporaneamente, la prima riflessione sulla condizione femminile, cominciando ad elaborare l’identità della donna dell’Italia unita. Esse tracciarono la strada sulla quale avrebbero camminato le donne del futuro, quella stessa strada sulla quale, oggi, 150 anni dopo, esse sono ancora in cammino. È bene volgere un rapido sguardo sulle esistenze di alcune di queste donne incredibili, per riparare, in piccolissima parte, al torto, commesso sia dai loro contemporanei, sia dagli storici, che le hanno confinate nel limbo della storia. Cristina Trivulzio di Belgiojoso: milanese, ebbe una travagliata vita familiare e comportamenti, per il tempo, ritenuti scandalosi (sposata, lasciò il marito ed ebbe una figlia da un nuovo compagno). Fuggita in Francia dopo il 1831, divenne giornalista. Tornata in Italia nel 1840 si stabilì a Trivulzio. Colpita dalle condizioni di miseria dei contadini, si dedicò ai problemi sociali. Seguendo le teorie utopistiche di Saint Simon e Fourier, aprì asilo e scuole per figli e figlie del popolo. Nel 1848-'49 fu ancora in prima linea: raggiunse Milano guidando la "Divisione Belgioioso", 200 volontari da lei reclutati e trasportati in piroscafo da Roma a Genova e da lì a Milano. A Roma, nei mesi della Repubblica guidata da Mazzini, lavorò giorno e notte negli ospedali durante l'assedio della città, creando le "infermiere" laiche e chiamando a questo compito nobili, borghesi e prostitute. Alla caduta della Repubblica (luglio 1849), dopo essersi battuta per salvare feriti e prigionieri, fuggì a Malta, ad Atene e infine a Costantinopoli. Alla sua morte, nessuno dei politici d'Italia partecipò ai suoi funerali. Anna Grassetti Zanardi: bolognese, fu moglie di uno degli organizzatori del tentativo insurrezionale mazziniano di Savigno. Anna, anch'essa ardente mazziniana, fu infermiera durante la campagna del 1848 e a Roma nel 1849. Durante la successiva restaurazione pontificia, per incarico di Mazzini, si occupò di creare comitati in città e anche in altri centri vicini. Sorvegliata e più volte perquisita, venne arrestata nel 1851 e trasferita nel carcere di Ferrara. Le cronache cittadine di fine ottocento la segnalavano, ormai vedova, sempre in testa al gruppo dei reduci garibaldini durante i cortei patriottici, con in dosso la camicia rossa garibaldina e il petto coperto da numerose medaglie. Giuditta Tavani Arquati: romana, incinta del quarto figlio, si trovava in Trastevere, nel lanificio Aiani insieme al marito, al figlio dodicenne e a molti altri cospiratori, che preparavano la rivolta in attesa dell’arrivo di Garibaldi da Monterotondo. L’entrata degli zuavi pontifici scatenò un aspro combattimento e, nonostante una strenua resistenza, i congiurati vennero sopraffatti e Giuditta, che aveva spronato, aiutato e soccorso i rivoltosi, venne massacrata dopo aver visto uccidere il marito e il figlio. Sara Levi Nathan: pesarese, si profuse per l'impegno politico e per le iniziative sociali: fu una fervente patriota, grande amica di Mazzini, che morì a Pisa nel 1872 proprio a casa di sua figlia Janet. Fu sorvegliata dalla polizia, e accusata di cospirazione. Riuscì a fuggire prima di essere arrestata e riparò a Lugano. Tornata a Roma, dette vita a numerose iniziative educative, filantropiche e sociali. Fondò, nel quartiere di Trastevere, una scuola intitolata a Mazzini, destinata alle ragazze, e aprì una casa per prostitute, l’Unione benefica, con l’intento di prevenire la prostituzione, offrendo a ragazze indigenti o in difficoltà alloggio, mezzi e possibilità di lavoro. Giorgina Craufurd Saffi: di famiglia inglese, si innamorò dell’Italia, anche grazie al favore che la sua famiglia esprimeva per la causa italiana. Sposò Aurelio Saffi, esule italiano a Londra, già triumviro della Repubblica Romana nel 1849. Dalle idee mazziniane trasse il profondo interesse per l’educazione delle donne e dei giovani, cui andava inculcato il rispetto dei diritti e dei doveri dell'uomo, e l'idea che solo attraverso l'emancipazione e la partecipazione alla vita civile e civica si sarebbe potuto essere cittadini e non sudditi, e partecipare all'emancipazione della Patria e del Popolo. Giorgina scelse così di occuparsi, in primo luogo, dell’educazione di tutte le donne, prime e fondamentali educatrici dei propri figli, cosa che la porterà ad appoggiare i movimenti emancipazionisti che, in quella seconda metà dell‘800, faticosamente stavano facendosi strada. Adelaide Cairoli: milanese, a 18 anni sposò Carlo Cairoli, professore di chirurgia di Pavia, di sentimenti patriottici. Donna di vasta cultura, curò lei stessa l’educazione per i figli indirizzandoli all’amore per la società e la patria. Finanziò giornali patriottici, ospitò un salotto politico-letterario, mantenne una corrispondenza con gli intellettuali del periodo. Così scrisse, lei stessa, una volta: “Prima ancora dunque che alla causa femminile, io mi ero votata a quella della mia patria e il mio amore per la prima nacque dal mio amore per la seconda.” Enrichetta Caracciolo: napoletana, fu forzata dalla madre a prendere i voti, ma sei anni dopo, ne chiese lo scioglimento a Pio IX, con esito però negativo. Riuscì a far introdurre nel convento dove risiedeva, dei giornali liberali, prese posizione contro i Borbone e contro il fenomeno delle monacazioni forzate. Quando Garibaldi entrò a Napoli, depose il velo monacale sull’altare durante la messa di ringraziamento per la sconfitta dei Borbone. Sposò il patriota Giovanni Greuther e pubblicò un libro di memorie che ebbe molto successo, "I misteri del Chiostro napoletano" Anita Ribeiro Garibaldi: fu la moglie di Giuseppe Garibaldi, nonché compagna di tutte le sue battaglie. Nel 1840, venne fatta prigioniera nella battaglia di Curitibanos, ma riuscì a sfuggire alla cattura. Nel 1849 era a Roma per la proclamazione della Repubblica Romana, dove combatté a fianco dei garibaldini, i quali però, dopo una lunga resistenza contro gli eserciti francese e austriaco che invasero la città, dovettero ritirarsi dopo la battaglia del Gianicolo. Durante quella fuga le condizioni di Anita, al quinto mese di gravidanza, peggiorarono, e fu proprio in quell'occasione che, a 28 anni, la donna-guerriero spirò. Desidero sottolineare che ho potuto constatare di persona che in alcune delle enciclopedie italiane più rinomate, a differenza dei patrioti uomini, gran parte dei nomi che ho citato, o non sono neanche menzionati, o invece, laddove vi è la voce ricercata, vi è una semplice nota biografica, che non approfondisce minimamente il ruolo svolto dalla patriota negli avvenimenti storici. Trovo tale fatto, in tutta sincerità, assurdo e fortemente paradossale. Sarebbe auspicabile, quindi, che parte delle energie e della vivacità impiegate per questi festeggiamenti del centocinquantesimo anniversario dell'Unità d'Italia, fossero investite nella ormai necessaria opera di restituzione della dignità storica a queste donne che, al pari degli uomini, contribuirono in modo determinante a costruire la nostra nazione e la nostra coscienza di italiani. ------------ "I Formaggi. Delizia della tavola" La gastronomia è senza dubbio una parte importantissima della cultura italiana e parlarne in termini esaustivi è un compito tutt’altro che facile, data la vastità che ne rende praticamente incompleta qualunque definizione o descrizione. La gastronomia italiana beneficia della ricchezza e della diversità delle tradizioni culinarie locali e degli ingredienti che contraddistinguono la maggioranza delle aree dello stivale: mare, monti, colline, laghi e pianure. Certamente è anche il risultato di culture che hanno avuto una particolare sensibilità verso il cibo, visto non soltanto come modo per assicurare la sopravvivenza nella sua forma più essenziale, ma anche come elemento per ottenere piacere. La cucina nazionale, quindi, si può definire come un insieme di culture e tradizioni gastronomiche regionali che hanno contribuito a creare un modello e uno stile identificabile con la “cucina italiana”. La presenza di diverse culture popolari, che in ogni regione evidenziano ancora un forte legame con il proprio passato e con le proprie tradizioni culinarie, rende praticamente impossibile la definizione di una cucina italiana vera e propria. Si può eventualmente parlare di uno stile “nazionale” e universalmente riconosciuto di interpretare la cucina tale da rendere le pietanze identificabili come “italiane”. Uno stile gastronomico apprezzato non solo in Italia, ma anche sinonimo del “buon mangiare” ovunque nel mondo. La particolare posizione geografica dell’Italia e la sua conformazione assai poco omogenea, rendono il clima estremamente vario e fanno sì che si possano trovare a distanza di poche centinaia di chilometri l’una dall’altra, realtà assai diverse tra loro per ambiente, cultura e, quindi, cucina. Oltre a ciò, è da considerare il notevole influsso degli antichi popoli che abitarono le regioni italiane in tempi passati e che introdussero sia l'uso di ingredienti, sia tecniche e pietanze specifiche, diventati con il tempo, tipiche e identificative. Inoltre, bisogna conoscere e considerare le varie cucine regionali, profondamente diverse le une dalle altre in quanto in esse, vi è più del semplice cibo, ma anche manifestazione della cultura e della storia del suo popolo. Cucina italiana, quindi, non significa solo spaghetti e pizza, in quanto ben più profonde sono le radici della nostra arte culinaria: i piatti regionali nascono da vere e proprie circostanze storiche e non pochi, sono gli aneddoti che si sono sviluppati intorno alla nascita di ricette che sono poi diventate capisaldi della cultura gastronomica italiana. A partire dalla seconda metà del secolo scorso ed in funzione dell'influenza che altri Stati hanno cominciato ad esercitare sulle nostre abitudini e sulla nostra cultura, la tradizione culinaria nazionale ha subito delle trasformazioni a causa del diffondersi di alimenti che a tutt’oggi caratterizzano il modo ed il gusto di mangiare di alcuni strati della popolazione italiana. Oltre alla diffusione dei fast food e dei cibi confezionati come alternativa alla tradizione in tavola, gli usi alimentari del nostro paese vengono costantemente influenzati dalla cultura culinaria delle minoranze straniere che popolano lo stivale e dalla facilità di contatti con il mondo intero che consente l'importazione di piatti e prodotti di altri paesi. Occorre dunque fare in modo che la nostra preziosa cucina regionale non venga soppiantata dalle moderne tendenze alimentari, che non sono manifestazione di usi, costumi e tradizioni radicati nella storia del nostro paese. Innovare in cucina è fondamentale, ma bisogna farlo mantenendo un’identità. Per questo è necessario partire dalla terra, che non è solo l’orto, ma un insieme di valori come usi e costumi, tradizioni gastronomiche, prodotti del territorio ed i suoi artigiani. Solo dopo aver studiato, approfondito e rispettato la tradizione, si ha il diritto di metterla da parte, sempre però con la consapevolezza che le si è debitori. Naturalmente, se si resta ancorati al passato, la vita che continua diventa vita che si ferma ma, se ci si serve della tradizione come d’un trampolino, è ovvio che si salterà assai più in alto.
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