Lauro: presentata al Senato una mozione di politica economica e finanziaria (Roma, 20 gennaio 2011)
MOZIONE LAURO DI POLITICA ECONOMICA E FINANZIARIA
Il Senato,
premesso che:
- nonostante gli ultimi dati sull’andamento della produzione industriale indichino una ripresa dell’attività produttiva (+5,4%) nel novembre scorso, il quadro dell’economia italiana per l’anno in corso resta quello di persistente stagnazione economica e di un crescente distacco dalle grandi economie europee e da quella americana. Nello stesso mese la produzione industriale nell’area dell’euro è cresciuta del 7,4% e nell’UE-27 del 7,8%. Se si guarda alle previsioni per l’anno in corso, il quadro non cambia: mentre l’economia italiana avanza secondo le migliori attese a un ritmo dell’1%, quella della Germania si espande al 2,1%, quella francese all’1,7%, quella dell’area dell’euro alla stessa percentuale (1,7%) e quella americana al 2,4%. Si approfondisce pertanto il divario con i nostri maggiori partner e, aspetto ancora più grave, si evidenzia che nel 2009 il reddito pro-capite è arretrato (-2,3%) per il secondo anno consecutivo, collocandosi al 6 % al di sotto della media dell’area dell’euro;
- nel complesso, due soli fattori fanno attualmente da traino, gli investimenti fissi e le esportazioni, ma ad essi si contrappongono il debole andamento dei consumi privati, il più forte incremento delle importazioni rispetto alle esportazioni, segnale di una crescente delocalizzazione produttiva e di carenza di competitività in diversi comparti, e l’effetto della manovra finanziaria varata a dicembre, che dovrebbe sottrarre almeno mezzo punto percentuale alla crescita;
- gli investimenti fissi stanno conoscendo un grande rimbalzo (+2,4%), ma si tratta semplicemente di un recupero parziale dopo il crollo del 23 % nel biennio della recessione economica. La vivace ripresa delle esportazioni (6,9%) è, invece, un elemento incoraggiante, ma come sottolinea la Confindustria, è dovuto a una esigua frazione di imprese (1,5%) e riflette ampiamente lo stato di necessità in cui si trovano per sfuggire alla stagnazione del mercato interno;
- a questi ritmi di espansione economica ci vorranno almeno tre anni perché il PIL ritorni ai livelli pre-crisi, con la conseguente prospettiva di un lento assorbimento della disoccupazione, attualmente sulle punte più alte (8,7%). Il quadro della disoccupazione appare, invero, allarmante, considerato che è fortemente concentrata nelle regioni del Mezzogiorno e tocca soprattutto i giovani, che invece dovrebbero rappresentare il capitale umano su cui puntare per risollevare le sorti dell’economia nel medio periodo;
- su queste grigie prospettive della crescita economica pesa come un macigno la necessità di ridurre il grave squilibrio esistente nella finanza pubblica. L’alto debito pubblico accumulato (118,5% del PIL) e l’attuale crisi europea del debito sovrano rendono oggi più arduo che nel passato finanziare il persistente disavanzo pubblico, e ciò senza considerare le difficoltà di rispettare l’impegno verso l’Unione Monetaria Europea ad abbassare il rapporto debito/PIL verso il lontano traguardo del 60%. Se si considera anche questo impegno, ai ritmi di crescita attuali, si renderà necessario introdurre dal 2014, anno dopo anno, manovre finanziarie di decurtazione del debito nell’ordine di 48 miliardi, pari a circa il 2,8% del PIL. L’entità di queste manovre potrebbe essere anche più profonda, se continuerà l’ascesa dei tassi d’interesse già in atto, che tende a portarli verso i livelli medi degli anni pre-crisi. In prospettiva, infatti, i tassi non potranno che aumentare, aggravando la spesa per interessi (4,9% PIL atteso nel 2011 contro il 4,7% nel 2010), in quanto i livelli attuali si giustificavano solo per contrastare la recessione, oggi superata. Naturalmente a questi rincari si aggiungerà lo spread sui tassi sui Bund tedeschi, che varia a seconda del mutare della rischiosità del debito italiano, quale è percepita dai mercati finanziari;
- emerge chiaramente che negli anni avvenire la spesa pubblica in disavanzo non può svolgere un ruolo di traino della crescita verso ritmi sostenuti. In altri termini, non vi sono spazi per ricorrere al deficit pubblico come strumento per rilanciare la domanda interna ed accelerare la crescita. Ma questa constatazione non significa che il bilancio pubblico non possa avere un ruolo nel sollecitare l’economia, né che non lo possano avere appropriate politiche governative rivolte verso l’economia. Anzi, dover far crescere il PIL più di quanto cresca il debito significa in definitiva fare in modo che il bilancio pubblico in fase di risanamento abbia un effetto moltiplicatore sulla crescita del reddito di gran lunga più elevato che nel passato. In altri termini, occorre ottenere più crescita per ogni euro di denaro pubblico speso o prelevato;
- per questo scopo il Governo dispone, in particolare, di tre strumenti preziosi: migliorare la qualità della spesa pubblica, contenere il peso del fisco sugli investimenti e sull’imprenditoria, e riformare il sistema economico in funzione di una sua maggiore competitività. Attraverso questi tre canali è possibile conciliare il rigore di bilancio con una più rapida espansione economica, perché i due termini non sono affatto inconciliabili, anche se il 90 per cento della spesa pubblica sembra avere un carattere obbligatorio. Sono infatti conciliabili se si interviene efficacemente sulle remore strutturali alla crescita e si orientano meglio le risorse pubbliche,
considerato che:
- per utilizzare bene queste tre leve, bisogna in primo luogo stabilire chiaramente pochi obiettivi principali da perseguire. Nell’ultima manovra finanziaria è evidente che si mira a contenere il deficit pubblico, ma non si persegue alcuna significativa strategia di sostegno alla crescita. Anzi si osserva che si riduce la quota di risorse pubbliche che è destinata agli investimenti pubblici, che invece dovrebbero essere espansi. Inoltre, si sviluppa una politica difensiva consistente nel sussidiare i posti di lavoro esistenti attraverso la Cassa Integrazione, ma non di attacco per generare nuova occupazione. Un’accelerazione della crescita richiede invece di concentrare gli sforzi su pochi traguardi strategici, quali: accelerare gli investimenti privati e quelli pubblici funzionali ai primi; generare maggiori opportunità di lavoro per le giovani generazioni in settori competitivi sia del secondario, che del terziario avanzato; puntare su un diffuso potenziamento della ricerca e dell’innovazione; sostenere con economie esterne la competitività delle imprese sui mercati esteri ed interni. Questi obiettivi si possono declinare anche nelle forme in cui il Consiglio Europeo ha specificato i traguardi per il programma di sviluppo Europa 2020, dopo lo scarso successo dell’Agenda di Lisbona. L’Europa ha fissato le seguenti mete: un tasso di occupazione del 75%, a fronte del 57,2% attuale dell’Italia; destinare il 3% del PIL alla ricerca e all’innovazione, a fronte del 1,2% attuale; raggiungere il traguardo del 20/20/20 in campo energetico; portare al 40% la percentuale dei giovani con un’istruzione a livello terziario; ridurre la quota di popolazione a rischio di povertà;
- spetta al Paese dare attuazione a questi obiettivi, presentando entro il mese di novembre di ciascun anno un Programma Nazionale di Riforme. Questa occasione va colta fin d’ora formulando un succinto programma di interventi per la crescita, che sia al tempo stesso coerente col rigido vincolo di disponibilità di risorse nel bilancio pubblico;
- le aree sulle quali intervenire prioritariamente sono: espandere la quota di risorse destinata agli investimenti pubblici per quei progetti che sono in funzione di sostegno alla competitività del settore privato; bilanciare il carico fiscale tra investimenti, consumi ed export; convertire una parte del patrimonio pubblico improduttivo in nuove infrastrutture per la crescita attraverso la privatizzazione; lanciare un grande prestito nazionale, con una parziale garanzia pubblica, per realizzare un paio di grandi progetti d’investimento su importanti filiere industriali e con alta intensità d’innovazione; un salto di qualità per una effettiva semplificazione delle procedure amministrative per le imprese, attraverso un ridimensionamento delle autorizzazioni preventive e un rafforzamento delle penali in caso di violazione delle norme di sicurezza e tutela ambientale; un salto di efficienza di sistema, in particolare nei servizi sanitari attraverso la fissazione di incrementi di produttiva a parità di spesa; riformare i servizi pubblici locali e la gestione di infrastrutture essenziali (acqua, telecomunicazioni, trasporti, reti); riformare il settore dell’energia per abbassare il costo dell’approvvigionamento energetico per imprese e famiglie; snellimento delle procedure di diritto commerciale per accorciare i tempi della giustizia in materia di economia; creazione di poli di eccellenza produttiva, derivanti dal collegamento tra imprese e centri di ricerca; sostenere la presenza sui mercati internazionali delle PMI, la loro aggregazione in reti o filiere, anche internazionali e loro capitalizzazione. In essenza, la strategia consiste in tre motti: investimenti, soprattutto in campi innovativi; occupazione di qualità, specialmente in aree innovative; maggiore efficienza nell’operare del sistema economico. Il tutto, senza incrementare la spesa pubblica, ma riorientandola a supporto di investimenti, competitività e riforme. L’entità dell’impatto della manovra dovrebbe essere su base annua almeno di 1-2 punti percentuali di PIL, per compensare in buona misura l’effetto depressivo sulla domanda derivante dalla manovra di riduzione del debito pubblico,
valutato che:
- la quota di spesa pubblica destinata agli investimenti può essere espansa attraverso la compressione della spesa corrente e il riorientamento dei risparmi ottenuti. Questo risultato può raggiungersi intervenendo sulle voci dei consumi intermedi, ossia l’acquisto di beni e servizi in diversi comparti, tra i quali quelli per i servizi sanitari ed i servizi locali, e anche dello sfrondamento di spese assistenziali (vedasi, i forestali in Calabria) e delle indebite pensioni d’invalidità. Si tratta di fare applicare obiettivi di incremento della produttività per unità di risorsa impiegata. I risparmi ottenuti andrebbero rivolti a sostenere investimenti nelle zone in cui il tessuto produttivo ha maggior bisogno di infrastrutture materiali e immateriali per poter comprimere i costi e guadagnare competitività. Pertanto andrebbero escluse da questi fondi quelle infrastrutture che non sono strettamente funzionali alle esigenze delle imprese per la loro competitività. Il risultato finale è ridurre l’area dell’occupazione poco produttiva ed allargare quella impiegata in investimenti a maggior produttività;
- l’intervento descritto dal lato della spesa si coniuga con un altro dal lato del prelievo fiscale per accrescere la redditività dei nuovi investimenti delle imprese. Considerato che questi sono attualmente in una fase di ripresa congiunturale dopo il recente crollo, si tratta di trasformare questo rimbalzo in una tendenza di lunga durata. Come? Aumentando la redditività del nuovo capitale investito attraverso l’applicazione di sostanziosi crediti di imposta, ma condizionati a un mix equilibrato tra i nuovi mezzi propri investiti e nuovo indebitamento. In particolare, va stimolata in questo processo la ricapitalizzazione delle società, abbassando il debt/equity ratio. Anche per gli incrementi delle esportazioni va previsto un trattamento fiscale o contributivo di favore, in quanto si è dimostrato che le imprese esportatrici sono più innovatrici e a più alta produttività rispetto alle altre. Per questa via, si farebbe perno sui due fattori di traino attuali, che sono export e investimenti, allo scopo di prolungarne la spinta negli anni. Più cautela va adottata nel reflazionare i consumi interni, perché comportano una considerevole intensità di importazioni (vedasi, elettronica) e si risolverebbero in un sostegno ai produttori esteri più che a quelli interni. A guadagnarci sarebbero soprattutto i commercianti, mentre il paese rimarrebbe in una situazione di deficit con l’estero, che attualmente ammonta a circa l’1 % del PIL;
- per finanziare un grande piano di investimenti è opportuno rilanciare il processo di privatizzazione almeno per un importo di 40 miliardi. Si tratta non di disperdere i proventi della vendita di una parte del patrimonio pubblico per coprire disavanzi, mentre la scelta ottimale sarebbe di utilizzarli per abbassare la consistenza del debito pubblico. Ma si vuole trasformare una quota del patrimonio poco utilizzato in nuovo capitale fisico al servizio della crescita. Quindi dovrebbe essere destinato a infrastrutture che elevano il potenziale produttivo del Paese e sono suscettibili di produrre un rendimento economico e non soltanto sociale. L’effetto ultimo sarebbe di innalzare il potenziale di crescita ed ottenere una riduzione del rapporto debito/PIL;
- nella stessa direzione va la proposta di lanciare un prestito nazionale per attuare grandi piani d’investimento. Questa è la strada percorsa attualmente dalla Francia di Sarkozy, che prevede un cofinanziamento paritario tra pubblico e privato per sostenere le grandi filiere industriali, ad esempio, aeronautica, spazio, auto. Nel caso italiano non è possibile accumulare altro debito pubblico, ma è percorribile la strada di un grande prestito privato, con una modesta garanzia pubblica. Il meccanismo sarebbe in breve un’estensione dello strumento finanziario messo a punto dalla Cassa Depositi e Prestiti, consistente nel fornire prestiti alle banche per girarne le risorse alle PMI durante l’ultima crisi (plafond 8 miliardi per le PMI). Nel nuovo contesto, si applicherebbe a tutte le imprese a fronte di un programma prestabilito di investimenti privati in grandi progetti. Occorre nel contempo individuare tre o quattro crinali di innovazione tecnologica su cui catalizzare gli sforzi di imprese e centri di ricerca, e quindi concentrarvi le risorse prese a prestito. In questo quadro si inserisce anche la promozione e il finanziamento di poli di eccellenza in Ricerca e Sviluppo, in funzione della produzione per il mercato, sul modello francese. In altri termini, poli in cui si attua il collegamento tra centri di ricerca e imprese;
- la semplificazione delle procedure per le attività economiche è un campo in cui si è fatto molto ma si è ottenuto poco, a causa della frammentazione delle competenze tra diverse autorità e del loro interesse ad esercitare in ogni caso un potere di veto, che ne giustifichi l’esistenza e perfino l’espansione. Occorre pertanto fare un salto di approccio, per ridurre al minimo tutte le autorizzazioni preventive per le imprese e contemporaneamente rendere proibitivamente severe le sanzioni in caso di non osservanza degli obiettivi da tutelare, in modo da avere un effetto di deterrenza per gli imprenditori e le loro attività. L’impresa beneficerà pertanto di un forte contenimento degli oneri della burocrazia e sarà maggiormente responsabilizzata a non violare le norme dalla severità e certezza delle pene;
- la scarsa efficienza del sistema economico ed amministrativo è una delle grandi remore allo sviluppo di cui il Paese soffre. Pensare di risolverlo è illusorio, ma è realistico operare per ridurre le inefficienze. Un’area d’inefficienza particolarmente costosa per la finanza pubblica è il sistema sanitario. Eccesso di personale, scarsa qualificazione professionale, costi eccessivi di gestione nel Mezzogiorno, casi di malasanità e frodi. Un modo di affrontare queste disfunzioni consiste nell’applicare rigidi vincoli sulle risorse da impegnare e precise mete in termini di guadagni di produttività da raggiungere anno dopo anno. Per uno stesso euro speso occorre ottenere più servizi ed assistenza. Il vincolo rigido sulle risorse dovrebbe forzare le ASL a riorganizzarsi, depoliticizzarsi e ottenere più prestazioni dal personale. Miglioramenti andrebbero altresì ricercati nel servizi postali, di telecomunicazioni, trasporto, gestione della viabilità. Nei servizi pubblici locali si annidano sacche di scarsa efficienza, i cui effetti si riflettono in carenze di servizi ed eccessi di costi a carico del bilancio degli enti territoriali. La via dell’introduzione di una limitata concorrenza nella gestione dei servizi è stata tentata in misura modesta, con miglioramenti limitati. L’alternativa oggi sta o nel percorrere fino in fondo la strada dell’assegnazione della gestione attraverso procedure concorrenziali, insieme alla verifica ex-post di efficienza del gestore privato, oppure nello stabilire obiettivi di guadagni di produttività che consentano di ottenere lo stesso servizio a minore costo. In quei territori in cui si resiste ad aprire la gestione del servizio al privato, è indubbio che il miglioramento potrà derivare dalla rigidità del vincolo delle risorse assegnate a parità di servizio reso;
- il settore dell’energia è quello in cui è stata portata avanti la liberalizzazione più che in altri paesi europei, ma in cui i benefici della concorrenza in termini di minori costi di approvvigionamento per imprese e famiglie tardano a manifestarsi in misura consistente. La ragione di fondo sta nel fatto che i vecchi monopolisti (ENI, Enel e Terna, in specie) conservano di fatto un tale potere di mercato da poter generare legalmente extra profitti da porre a carico dell’intero Paese. Ai loro comportamenti si accodano con atteggiamenti di fatto collusivi altri operatori privati che, pur non essendo altrettanto efficienti, riescono a stare sul mercato partecipando al surplus che il produttore dominante riesce ad estrarre dal consumatore. Il mercato dell’energia elettrica, nonostante i progressi compiuti nella direzione della concorrenza, serve attualmente a fornire una copertura per giustificare la formazione di questi extra-profitti. Il gestore di rete ne asseconda la formazione in maniera legale, scaricando sui consumatori in Bolletta le sue inefficienze o i ritardi nel potenziamento della rete. L’autorità è in gran parte consapevole di questo stato di cose, ma si muove con troppa cautela per non pestare i piedi, malgrado qualche grida sulla rete gas. Perché nessun Governo, di qualsiasi parte politica, non è mai intervenuto pesantemente? Perché ha trovato più conveniente partecipare alla distribuzione di questi profitti, trattandoli di fatto come una tassa occulta su tutti gli italiani. Al tempo stesso usa queste imprese come strumenti nel gioco internazionale tra poteri economici. Dove intervenire con riforme? Non potendo smantellare queste posizioni, unica via è porre un tetto sui prezzi, lasciando al mercato possibilità di svolgere un ruolo al di sotto di questo limite di prezzo. È la strada percorsa con successo dalla Spagna e anche in forme più complesse dalla Francia. Lo sviluppo del nucleare è invece solo un palliativo, che risponde più all’esigenza di assicurare una minore insicurezza nel medio periodo dal lato dell’approvvigionamento energetico, che a ottenere un significativo abbassamento dei prezzi;
- le PMI rappresentano ancora l’asse portante della nostra economia, ma anche un punto di debolezza. Per rafforzarne il ruolo in un’ottica di competitività sarebbe necessario stimolarle e sostenerle nell’accedere ai mercati esteri, nel partecipare a processi di aggregazioni in reti o in filiere produttive, specialmente transnazionali, e nel potenziare la base di capitale proprio. I progressi fatti in questi campi negli ultimi anni sono ancora modesti, mentre meccanismi molto più efficaci potrebbero essere messi in atto, senza grande impegno di risorse finanziarie. Una delle remore che scoraggiano gli investitori in Italia è la lunghezza delle procedure di giustizia per difendere i propri diritti nelle attività commerciali, nei rapporti di dare ed avere. Sperare in un miglioramento nella gestione della giustizia è illusorio, perché le procedure e la bassa produttività dei magistrati non lasciano ben sperare. Una soluzione potrebbe consistere nel porre termini stretti inderogabili per la lunghezza dei procedimenti e dei giudizi, come pure per i procedimenti esecutivi, quali le escussioni, le liquidazioni e i fallimenti;
- oltre alle misure accennate, altre sono possibili per generare nuovi introiti fiscali da destinare a investimenti, occupazione e competitività. Ad esempio, la revisione generale degli estimi catastali, fermi da più di 10 anni, l’inasprimento dell’IVA su prodotti voluttuari (i SUV), l’aumento delle tariffe, ma tutte queste misure conducono a un incremento del prelievo fiscale, che va contro i principi a cui si ispira il Governo e porta la pressione fiscale, già elevata, su livelli poco accetti dalla società civile e dalle imprese. Non resta quindi che lavorare sulla composizione delle spese e delle entrate, nonché sulle riforme di struttura per accentuare il moltiplicatore del reddito;
- anche per favorire l’occupazione dei giovani, si potrebbe prevedere una esenzione dai contributi sociali per i primi 2-3 anni specificamente per posti di lavoro nel manifatturiero e nell’artigianato (non nei servizi, dove è più facile trovare lavoro). Una misura simile è già stata attuata in forma più limitata,
impegna il Governo
a sostenere ogni iniziativa che consenta al Paese di uscire dallo stallo attuale e dall’acquiescenza alla stagnazione, per fargli riacquistare competitività e assicurargli un rinnovato sviluppo.
|