Intervento integrale del Sen. Lauro in Aula al Senato (Senato. 10 novembre 2010)
Intervento del Sen. Raffaele Lauro (PdL) nell’aula del Senato sulla mozione a firma del Sen. Rutelli ed altri
(10 novembre 2010)
Signor Presidente,
Onorevoli colleghi,
la mozione che siamo chiamati a discutere, a firma del Sen. Rutelli ed altri, auspica l'apertura di una stagione di Governo, coerente con la strategia europea per la crescita economica, da perseguire entro il 2020, in grado di diventare la bussola delle politiche nazionali per il prossimo decennio, con l'indicazione degli obiettivi da conseguire.
Il documento, presentato dall'opposizione, pur ammantato di lodevoli intenzioni, può essere definito una fantasia parlamentare, un vademecum di sogni, un manifesto di propaganda, di sapore elettoralistico, un elenco dove ciascuno firmatario ha messo del suo, una sommatoria incoerente, e senza alcun ordine di priorità e di compatibilità, di aspirazioni riformatrici e pseudo riformatrici, che prescindono totalmente dalle politiche di bilancio di un paese, come l'Italia, con alto debito pubblico ed eccessivo disavanzo, i cui vincoli europei del riformato Patto di Stabilità limitano, di fatto, tanto la sovranità nazionale, quanto la capacità di attuare programmi di rilancio dello sviluppo economico, che risultino, come quelli ammassati nella mozione, generici, incoerenti ed irrealistici.
Non si può, quindi, prescindere da un’analisi responsabile dei vincoli europei, resi ancora più stringenti dalle recenti decisioni del Consiglio Europeo.
Il mandato affidato dal Consiglio Europeo alla Task Force composta dai ministri delle finanze era di rafforzare la governance dell’economia europea, dopo i disastri finanziari determinati dalla crisi di alcune delle maggiori banche europee e dall’insolvenza della Grecia sul debito sovrano. La soluzione a cui è giunta, approvata sostanzialmente dall’ultimo Vertice Europeo, consiste nel porre la politica di bilancio di paesi come il nostro, con alto debito pubblico ed eccessivo disavanzo, entro uno stretto corsetto, che limita fortemente tanto la sovranità nazionale, quanto la capacità di attuare programmi di rilancio dello sviluppo economico.
Benché la storia economica degli ultimi decenni abbia dimostrato che le pressioni esterne, particolarmente dell’UE, hanno avuto un ruolo determinante nell’indurre l’Italia a mettere ordine nei suoi conti pubblici, le modifiche proposte al Patto di Stabilità sono particolarmente penalizzanti per il Paese nella prospettiva di molti anni avvenire, proprio perché tra le grandi economie europee la nostra è la più deviante rispetto alla disciplina che si intende introdurre in termini di debito e deficit pubblici.
Questa si articola essenzialmente in tre interventi: 1) un’attenzione maggiore sul rientro del debito entro il limite del 60 % del PIL; 2) maggiore rigore nel fare rispettare i vincoli di bilancio; e 3) verifica preventiva a livello europeo della coerenza della politica nazionale con le regole comunitarie prima della sua messa in opera.
L’impressione, che se ne trae, di un insostenibile rigore non viene scalfita dal fatto che non si conoscono ancora i termini quantitativi della nuova disciplina, né dei meccanismi per attuarla, dato che saranno stabiliti entro il 2013, per entrare in vigore immediatamente dopo. Infatti, alcuni punti fermi sono stati già definiti.
In particolare, in via preventiva si prevede che gli Stati con un debito superiore al 60 % del PIL, o su livelli insostenibili, siano tenuti ad accelerare il cammino di riduzione del debito verso il traguardo del 60%, anche se il loro deficit pubblico stia già sotto il 3% del PIL. In via correttiva, invece, i disavanzi di bilancio, per essere tollerati, dovranno essere tali da non compromettere l’obiettivo di raggiungere senza discontinuità una sostanziale riduzione del debito in rapporto al PIL. Pertanto, per ottenere l’assenso dell’UE, non basta che un paese programmi un deficit sotto il limite del 3 %, se questo non consente di abbassare in misura sostanziale il livello del debito.
L’inosservanza dei limiti posti dall’UE per il raggiungimento dell’obiettivo di riduzione del debito verrebbe, quindi, ad aggiungersi alla violazione del limite del 3% del PIL come causa dell’applicazione di un regime sanzionatorio.
Quest’ultimo consiste, in un primo stadio, nell’obbligo di effettuare un deposito fruttifero, a cui seguirebbe in un secondo stadio, nel caso di perdurante inadempienza, la loro trasformazione in depositi infruttiferi, per lasciare il posto a vere e proprie multe in un terzo stadio di inadempienza.
Ad accrescere il rigore concorre, inoltre, la nuova regola secondo cui l’applicazione delle sanzioni avrebbe carattere tendenzialmente automatico: ovvero sarebbe ritardata di circa 6 mesi, per dare allo Stato un breve tempo per correggere le sue politiche, ma trascorso questo termine, in caso di inadempienza, il Consiglio dovrebbe erogare la sanzione proposta dalla Commissione, a meno che si formi una maggioranza contraria (maggioranza rovesciata o reverse majority).
A completare questo corsetto intervengono anche una serie di requisiti minimi entro cui la politica di bilancio deve essere inquadrata e una sorveglianza rafforzata sulla sua conduzione, con frequenti missioni di verifica da parte della Commissione UE, la pubblicazione delle sue valutazioni e l’attribuzione all’Eurostat di maggiori poteri di verifica sulle statistiche dei conti pubblici. In breve, la politica di bilancio dovrà muoversi entro un binario prestabilito d’accordo con l’UE, in cui si terrà conto dell’andamento del deficit strutturale (cioè corretto per l’effetto della congiuntura), della spesa pubblica e delle variazioni nella tassazione.
Per la soluzione delle crisi debitorie, il nuovo Patto prevede, inoltre, di istituire un Fondo di salvataggio, con un meccanismo di sostegno, che chiama in causa non solo i governi, ma anche i creditori privati e la BCE.
Criticità per l’Italia derivanti dal nuovo Patto
Dopo la Grecia, l’Italia è nell’ambito della Eurozona il paese maggiormente toccato dai vincoli del nuovo patto, perché già registra il livello di debito più elevato in rapporto al PIL (108,5% previsto dal Tesoro per il 2010) e un deficit superiore al limite (4,9% nel 2010). Questa situazione di devianza dai parametri del Patto non è destinata a rientrare in breve tempo, ma dovrebbe trascinarsi ancora per molti anni. Secondo le proiezioni del MEF (Ministero Economia e Finanze), il deficit di bilancio scenderebbe sotto il limite solo nel 2012 (-2,4%), con un fabbisogno finanziario leggermente più alto (-2,6%), ma il debito solo nel 2013 si riporterebbe ai livelli del 2009 (115,2 % PIL), dopo aver raggiunto il picco del 119,2 % nel 2011.
Come precisato dal MEF, sulla dinamica del debito/PIL nel prossimo triennio influiscono sia la crescita modesta del PIL (l’1,3% nel 2011 e 2% nel 2012-13), sia la partecipazione al sostegno finanziario della Grecia. Altri fattori, tuttavia, hanno anche grande peso, anche se non ne fa menzione: in particolare,
- l’evoluzione della spesa per interessi sul debito,
- il saldo primario (differenza tra entrate e spese al netto degli interessi sul debito),
- il disavanzo netto (alias, indebitamento netto),
- e le operazioni di finanziamento non legate alla copertura del disavanzo pubblico, che riguardano in specie gli enti pubblici.
Su ciascuna di queste variabili si addensano incertezze che tendono prevalentemente ad andare nel senso di dilatare il debito.
In via di principio, a parità di altre condizioni, l’evoluzione del rapporto debito/PIL dipende essenzialmente da tre fattori: a) l’incidenza della spesa per interessi sul debito; b) il tasso di crescita del PIL nominale; e c) il saldo tra spese ed entrate al netto della spesa per interessi (saldo primario).
Quanto più l’incidenza degli interessi sul debito supera la crescita del PIL, tanto più si dilata il rapporto debito/PIL, a parità di saldo primario.
Per evitare questa dilatazione è necessario, coeteris paribus, che il saldo primario raggiunga un avanzo tale da compensare l’eccedenza suddetta. In tal modo si otterrebbe di stabilizzare il rapporto debito/PIL.
Nel caso, invece, in cui lo si volesse ridurre, l’avanzo primario dovrebbe aumentare ancor di più, ovvero in misura coerente con l’obiettivo prefissato di riduzione dell’incidenza del debito. Ciò implica che la spesa pubblica primaria (cioè, quella al netto degli interessi) deve risultare annualmente nettamente inferiore alle entrate.
Diversamente, qualora la crescita del PIL superasse l’incidenza degli interessi, coeteris paribus, il debito tenderebbe a scendere in rapporto al PIL a parità di saldo primario.
Data questa premessa, è evidente che i vincoli del nuovo Patto, pur nella loro attuale indeterminatezza quantitativa, generano per l’Italia, nelle condizioni attuali, alcune criticità di notevole portata.
Prima criticità
A titolo illustrativo, si consideri quali effetti avrebbero le regole del nuovo Patto se fossero in vigore nel prossimo triennio. Applicando la precedente analisi al programma di bilancio contenuto nella recente Decisione di Finanza Pubblica (DFP), risulta evidente che per i prossimi tre anni sarebbe insostenibile la riduzione del debito/PIL rispetto ai valori del 2009.
In particolare, pur in presenza di una sostanziale stabilità della spesa per interessi/PIL, si sconta che l’incidenza degli interessi sul debito superi l’incremento del PIL negli anni 2010 e 2011, con un divario che non trova compensazione nel saldo primario, dato che quest’ultimo nel 2010 risulterebbe negativo per 0,8% del Pil e nel 2011 dovrebbe tornare in positivo in misura insufficiente (cfr. tabella). L’andamento del saldo primario e la bassa crescita del PIL si rifletterebbero, insieme all’aumento delle attività finanziarie, in una lievitazione del debito fino al 119,2% del PIL.
Soltanto per impedire questo aumento rispetto al livello del 2009 sarebbe necessario raggiungere un avanzo primario tre volte più alto di quello programmato per il 2011, ossia un avanzo stimabile in circa 4 punti percentuali di PIL. In altri termini, le entrate dovrebbero superare la spesa primaria in quella misura, con implicazioni nettamente negative per la già modesta crescita del reddito, che si attende in questo biennio.
Successivamente, nel biennio 2012-2013, secondo il programma del Governo, il debito dovrebbe ritornare appena al di sopra del livello del 2009 in percentuale del PIL (115,2%), come riflesso sia di una crescita economica in leggera ascesa (2% annuo), sia di un avanzo primario in risalita al 2,8 PIL.
In sintesi, secondo il MEF, soltanto per stabilizzare il debito/PIL al livello del 2009 occorrerebbero 4 anni, un crescita economica su ritmi superiori a quelli medi visti nello scorso decennio e un freno alla spesa primaria per tenerla su traiettorie inferiori a quella delle entrate.
Ipotesi ben più ardue sarebbero, invece, necessarie se l’Italia dovesse ridurre in questi anni l’incidenza del debito sul PIL e non semplicemente stabilizzarla. Si tratterebbe, infatti, di ottenere un’espansione del reddito nazionale più elevata di quella attesa dal Governo, ipotesi decisamente fuori della realtà, oppure un taglio della spesa primaria superiore ai 4 punti percentuali di PIL rispetto a quella programmata, oppure una riduzione di portata inferiore ma con un contestuale incremento della pressione tributaria fino a raggiungere tra entrate e spese un saldo primario di quell’entità relativa (oltre 4% PIL).
Bastano queste poche cifre per far comprendere la insostenibilità per il Paese delle regole del nuovo Patto fino al 2013. Di fatto, secondo le decisioni del Consiglio europeo questo dovrebbe entrare in vigore dal 2014. Ma il giudizio sulla scarsa sostenibilità delle nuove regole non cambierebbe.
Seconda criticità
Dal 2014 in poi si possono ipotizzare diversi ritmi annui di riduzione del debito/Pil. La Commissione Europea ha proposto al riguardo di ridurlo nella misura annua di 1/20 della differenza tra la media degli ultimi tre anni e il traguardo del 60% del PIL. Per l’Italia, dato che questa media per il periodo 2011-2013 ammonta a 117,3%, si tratta di decurtare il rapporto debito/PIL del 2,865% ogni anno, che corrisponde a € 49.308 milioni, a valori di PIL del 2013.
Utilizzando, invece, come punto di partenza del debito, il suo livello atteso al 2013 (115,2% del PIL), la riduzione necessaria non cambierebbe di molto, in quanto ammonterebbe pur sempre al 2,76 % del PIL, ovvero a € 47.751 milioni.
Lasciando da parte altre ipotesi, si tratta di sottrarre al debito in media tra i 48 e i 49 miliardi di euro all’anno per venti anni, ovvero attorno al 2,8% del PIL per anno, assumendo costanza nel tempo dei ritmi di crescita del debito e del PIL, nonché della spesa per interessi, ai valori attesi per il biennio 2012-2013. Naturalmente, coeteris paribus, un’accelerazione della crescita porterebbe a un più rapido calo del debito/PIL e viceversa in caso di decelerazione.
Indubbiamente una parte di questa decurtazione si può ottenere cedendo ai privati attività patrimoniali pubbliche per destinare i proventi al ritiro del debito. Ma la loro consistenza, anche nella più rosea delle ipotesi di cedibilità di questi assets al mercato, non supererebbe il 15% del debito pubblico accumulato al 2013. Ciò significa che in media annua meno dello 0,8% del debito potrebbe essere abbattuto in questo modo senza toccare la spesa pubblica, ovvero lo 0,87% del PIL per anno.
Rimarrebbe, quindi, da effettuare un aggiustamento annuo di bilancio di circa il 2 % del PIL. Per dare un’idea della consistenza di questa cifra, si ricorda che la Commissione UE aveva impegnato il Governo al taglio del deficit nel biennio 2012-2013 in misura pari a 1,5% del PIL per anno. È quindi evidente che si è di fronte a una correzione molto consistente e persistente negli anni, che non lascia margini per aumenti di spesa in percentuale del PIL a meno di corrispondenti incrementi dei prelievi fiscali.
Naturalmente sono configurabili altri percorsi di rientro del debito nel corso degli anni, ma se l’arco di riferimento sono 20 anni, il risultato sarà pur sempre una correzione molto forte in alcuni anni e meno forte in altri.
In ogni caso, la correzione in questione implica un taglio notevole di una componente della domanda aggregata, ovvero la spesa pubblica, minimizzando di fatto la sua capacità di stimolare l’economia, perché a ogni maggiore spesa dovrà corrispondere una maggiore entrata. Si richiama in proposito che il moltiplicatore del reddito per una spesa compensata da entrate corrispondenti è molto inferiore a quello di una spesa in deficit.
Una conseguenza preoccupante sta anche nel restringersi della capacità della spesa pubblica di svolgere una funzione di stabilizzazione del ciclo economico, contrastando la bassa congiuntura.
Va sottolineato al riguardo che nel Rapporto non si tiene conto adeguatamente della necessità di mantenere margini di flessibilità nel bilancio in funzione anti-ciclica pur nell’ambito di un programma di riduzione del debito. Si parla solo, nella fase preventiva, di valutazione del disavanzo strutturale, mentre nella fase di correzione, restano le regole attuali che stabiliscono che solo in caso di profonda recessione il paese può deviare dai parametri del Patto.
Se la domanda pubblica vede ridimensionato drasticamente il suo ruolo di stimolo alla crescita, quale altra componente dovrebbe assumere un maggiore ruolo?
La domanda estera sembra condizionata negativamente dal notevole apprezzamento dell’euro rispetto alle principali monete e dalle incertezze sulla sua evoluzione. Nessuno può attualmente contare sul percorso futuro dell’euro per competere meglio. Guadagni di competitività esterna, quindi, sarebbero essenzialmente legati alla capacità del Paese di avere una dinamica di costi e prezzi inferiore a quella dei maggiori concorrenti. È un’ipotesi poco plausibile, vista la tendenziale propensione dell’Italia a un’inflazione maggiore di quella dei concorrenti principali.
Dal lato della domanda interna, molto dipende dalla convenienza relativa per i privati ad effettuare investimenti in Italia e dall’accelerazione della produttività, compresa quella multifattoriale. Sull’uno e sull’altro fronte vi sono molti ostacoli. Una forte ripresa degli investimenti su base decennale richiederebbe il superamento dei gravi problemi di competitività di cui il Paese è afflitto da molti anni. Un’accelerazione sostenuta della produttività, che dovrebbe prendere il posto della stagnazione dello scorso decennio, presuppone profondi cambiamenti nelle strutture organizzative delle imprese e nelle relazioni industriali. Questi sono risultati che si ottengono solo dopo lunghi e faticosi processi di cambiamento, che non sono facilmente assicurati.
Se ne può dedurre che una riduzione del debito, come voluta dall’UE, si tradurrebbe nel venire meno del bilancio pubblico come uno dei fattori di spinta allo sviluppo economico, senza che attualmente si scorga altri fattori che siano in posizione tale da compensarne l’effetto.
Terza criticità
Per ridurre l’incidenza del debito pubblico è inevitabile puntare su un ampliamento dell’avanzo primario, oltre che su una nuova ventata di crescita economica. Ovviamente, l’aumento dell’avanzo può essere ottenuto in diversi modi e con differenti percorsi, ma sostanzialmente comporta o una compressione della spesa primaria, o un incremento del prelievo fiscale, o entrambi. La scelta tra queste tre alternative non è indifferente ai fini dello sviluppo economico.
Dal lato della spesa primaria, l’esperienza dell’ultimo decennio indica che le manovre di correzione si risolvono frequentemente nel taglio della spesa più produttiva, ovvero gli investimenti pubblici, perché oltre il 90% della spesa ha carattere obbligatorio ed è difficilmente comprimibile. Un esempio in tal senso si ha anche nell’ultima manovra finanziaria, sancita dalla DFP per il 2011-2013.
Per questo periodo si prevede che la spesa per investimenti fissi pubblici si contragga dal già modesto livello del 2,5 % del PIL nel 2009 all’1,8 % nel 2013. Come è noto, questa spesa è generalmente destinata a creare quelle infrastrutture che agevolano il sistema economico, migliorandone l’efficienza e la produttività. Il suo declino non può, quindi, non avere effetti deleteri sul potenziale di crescita dell’economia.
Date queste premesse, è ragionevole supporre che un programma pluriennale di taglio del debito pubblico comporti decurtazioni significative dei programmi di investimento pubblico, con ripercussioni sulla crescita e sulla competitività di sistema. Pertanto, anche attraverso questo canale il nuovo Patto determinerebbe maggiori difficoltà per il rilancio della nostra economia.
Dal lato dell’entrate, occorre esplorare i margini di cui si dispone per accrescere il prelievo sul reddito prodotto. Il programma attuale del DFP prevede che il prelievo tributario e contributivo si mantenga fino al 2013 oltre il 42% del PIL (42,2%), nonostante un lieve calo rispetto al 2010 (42,7%). Pensare di accrescere il peso fiscale di 1 o 2 punti percentuali di PIL per molti anni al fine di tagliare il debito sembra azzardato, visto il livello già raggiunto dal prelievo e le sperequazioni nella sua distribuzione. Per questo motivo il Governo punta ad accrescere le entrate solo con il recupero dell’evasione e dell’elusione fiscali, piuttosto che introducendo nuove imposte o ampliando la base imponibile. Ma vi sono pochi dubbi su fatto che un programma di riduzione del debito del tipo in esame a Bruxelles non potrà evitare la necessità di alzare il prelievo fiscale in un modo o nell’altro, con effetti depressivi sulla crescita.
In sintesi, il nuovo Patto pone l’Italia di fronte a difficili scelte tanto sul livello che sulla composizione sia delle spese che delle entrate, con un elevato rischio che le soluzioni adottate si rivelino deleterie per il potenziale di sviluppo dell’economia nel medio periodo.
Alcune conclusioni
I termini del nuovo Patto, sebbene non ancora definiti nei dettagli, possono comportare diversi scenari di evoluzione della nostra economia nei prossimi decenni, ma tutti questi scenari si prefigurano come “lacrime e sangue”. Quando un debito pubblico, come quello italiano, raggiunge le dimensioni attuali del 108,5 % del PIL, non è probabile che un programma vincolante di ordinato rientro entro il 60% del PIL possa realizzarsi in 20 anni senza un progressivo impoverimento del Paese.
Per sfuggire a questa dura realtà occorrerebbero eventi straordinari, come un balzo in avanti nella crescita, o una fiammata di inflazione, o un’operazione di finanza straordinaria, o tassi di interesse permanentemente su valori minimi, che sono tutti eventi irrealizzabili nell’attuale assetto della nostra integrazione nell’Unione Economica e Monetaria. L’alternativa a disposizione sul piano interno dovrebbe essere un radicale rinnovamento dell’economia che la ponesse in grado di correre, invece di trascinarsi come avvenuto negli ultimi 15 anni; ma quanto sia fattibile è un interrogativo senza risposta.
In queste condizioni, nei prossimi negoziati sui particolari del Patto, da parte italiana dovrebbe mirarsi ad ottenere il massimo di flessibilità nei tempi del rientro del debito, in quanto allungandoli si può diluire l’intensità della correzione su base annua. Non dovrebbe, invece, farsi molto affidamento sul richiamo del debito privato, finanziario o no che sia, perché ha scarso rilievo quando si discute di un Patto che mira a scongiurare il pericolo dell’insolvenza di uno Stato sul suo debito. Di fatto, degli indicatori di debito privato non vi è cenno nel Rapporto, mentre è l’Italia l’unico paese che li invoca.
Una flessibilità va anche richiesta nell’applicazione delle sanzioni, perché si tenga in maggiore conto l’andamento del ciclo e il ritmo di sviluppo economico. Nelle fasi basse del ciclo economico e nei periodi di bassa crescita il vincolo di rientro del debito dovrebbe essere molto attenuato, in contropartita di uno stimolo maggiore agli investimenti pubblici e privati.
Quale che sia la definizione finale del Patto, una conclusione è chiara: qualsiasi riduzione sostenibile del debito pubblico italiano è possibile solo comprimendo la spesa primaria e operando per un rapido ritorno a una crescita elevata e duratura.
Due vie di fuga
In questo scenario rigorista, il percorso della nostra economia non è ineluttabilmente segnato, ma sono possibili due vie di fuga dalla stagnazione economica conseguente al rigore nel rientro del debito:
1) ottenere dall’UE un altrettanto stretto coordinamento delle politiche economiche che obblighi i paesi in surplus di bilancia corrente con l’estero, segnatamente la Germania, a perseguire politiche di riflazione della domanda interna;
2) cogliere l’occasione del Programma Nazionale di Riforma, previsto dalla Strategia Europea “Europa 2020” per varare al più presto un programma pluriennale di vere riforme che incidano profondamente sui nodi strutturali dello sviluppo economico del Paese.
Sul primo punto va sottolineato che il miracolo economico tedesco di questi anni ha riversato un onere pesante sui paesi in deficit, che a causa dell’unione monetaria non possono svalutare il loro cambio reale per stimolare la loro economia. In un contesto di immutabilità del rapporto di cambio tra paesi dell’eurozona, i forti guadagni di produttività realizzati dalla Germania nello scorso decennio non si sono tradotti in un’espansione della domanda tedesca, ma piuttosto in un’impennata della competitività dei prodotti tedeschi sul mercato europeo. Ne è prova che nel 2009 l’avanzo commerciale della Germania si è concentrato per l’ 59% nella eurozona e per il 26 % nel resto dell’Europa. Essendo il suo surplus in gran parte verso l’Europa, la Germania è meno toccata degli altri paesi dell’eurozona dai problemi che pone il forte apprezzamento dell’euro verso il dollaro e meno sensibile alle richieste di espandere la domanda interna.
Benché il Rapporto menzioni brevemente la responsabilità dei paesi in surplus, è necessario fare di questa condizione un impegno tanto vincolante quanto quello dei paesi indebitati a ridurre il loro debito. In breve, una maggiore espansione della domanda tedesca giova anche alla crescita dell’economia italiana, sempre che riesca a migliorare la sua competitività.
Quanto al secondo punto, a parte il ruolo della congiuntura estera, la chiave di volta della soluzione dei problemi debitori italiani sta nel realizzare quei cambiamenti strutturali che consentano un forte incremento della competitività e di riflesso producano una nuova era di crescita.
L’occasione per agire in maniera determinante in questa direzione è fornita dall’impegno dell’Italia, insieme agli altri paesi membri, a perseguire gli obiettivi della strategia "Europa 2020", mediante un Programma Nazionale di Riforma, il cui progetto è stato approvato nel Consiglio dei Ministri del 5 novembre scorso e la cui versione finale verrà presentata nell'aprile 2011.
I traguardi posti dall’UE hanno grande rilevanza per l’Italia, proprio perché interessano le maggiori vulnerabilità della sua economia.
Si tratta di mirare a:
• un tasso di occupazione del 75%, a fronte del 57,2% attuale dell’Italia;
• destinare il 3% del PIL alla ricerca e all’innovazione, a fronte del 1,2% attuale;
• raggiungere il traguardo del 20/20/20 in campo energetico;
• portare al 40% la percentuale dei giovani con un’istruzione a livello terziario;
• ridurre la quota di popolazione a rischio di povertà.
A questi obiettivi si affiancano in funzione strumentale diversi altri, quali la semplificazione amministrativa, il disboscamento delle posizioni di rendita o privilegio sul mercato, l’efficienza nei servizi pubblici, un sistema di relazioni industriali che non ponga le nostre imprese in condizioni di svantaggio nella concorrenza internazionale, un’attenzione maggiore alla produttività, la realizzazione di infrastrutture funzionali al sistema produttivo.
Non sono questi obiettivi nuovi; anzi, da più di un decennio se ne parla e sono stati anche inclusi nella Agenda di Lisbona, che tuttavia è stata eseguita solo in modesta misura. Occorre, quindi, cogliere l’occasione della nuova Strategia Europea per avanzare con decisione sulla strada di queste riforme, ben sapendo che l’Italia più delle altre grandi economie ha tutto da guadagnare da questa marcia, mentre mancare questa occasione significherebbero perdere ancora posizioni.
INDICATORI MACROECONOMICI RILEVANTI (in %)
Anni
2009 2010 2011 2012 2013
PIL nominale
(variazione) 2,2 3,1 3,9 3,9
Spesa per interessi
(variazione) -0,1 6,9 3,5 1,75
Spesa interessi/PIL 4,8 4,7 4,9 4,8 4,7
Saldo primario/PIL -1 -0,8 0,8 2,3 2,8
Debito Pubblico/PIL 115 118,5 119,2 117,5 115,2
Spesa interessi/Debito Pubblico 3,97 4,1 4,1 4,1
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